E la luna – in un cielo di poco più scuro – lo guardava dall’alto. Come dimenticare? Egli disse. Altro non esiste che un passo di polvere nella fame del vento. E dopo gridò come un falco e negli occhi l’alveo delle nuvole dove scorre tutto il tempo e nelle mani la sua natura umana, immoderata.
S’apre come territorio a margine di due luoghi precisi e confinanti, l’esordio letterario di Emilia Barbato, Geografie di un orlo (CSA Editrice, 2011), dove l’autrice racconta di sé a se stessa, di quanto accaduto così vicino da poterlo quasi ancora toccare, ma ormai così passato da essere altro ed altrove. Suddivisi in tre momenti (Frattali, Geografie, Paesaggi) hanno questi versi un sommesso accordo col destino, anche se in alcuni passaggi esplodono a dominare il momento, come a volerlo fermare per essere meglio ricordato.
Ha voce dolce l’autrice, quasi di chi ha sperato fino all’ultimo che le situazioni andassero in maniera differente, sfociante in voce di donna che cresce man mano nella consapevolezza del mutare del suo ruolo e dell’oggetto del suo amore. Per tutto il testo si avverte e si è partecipi di un cambiamento, come se la poesia fosse servita a rallentare il giorno per prenderne maggior coscienza, per…
Dispongono l’ovvio tra le parole,
auspicano la caduta dell’avversario,
progettano numeri e presentazioni,
poi, riposano nel lusso.
Ai margini delle loro serate,
fioccano lettere
di licenziamento, qualche riallocazione
e la nausea di una segretaria accondiscendente.
L’indomani posizionano la cravatta compiaciuti;
questo metodo ci riduce,
inietta dosi di veleno che addomesticano il disgusto,
ci consuma in una lenta rassegnazione.
Mezz’ora alle tre, mezz’ora prima che Sartre posasse la penna sul foglio per dare voce all’inizio di pagine amare e bellissime, così vicine alla condizione umana.
Nei pensieri tutto il dicibile concentrato in un silenzio.
L’eco dei tuoni si propaga nell’aria ferma, avanza come una cavalleria medievale muovendo nuvole sempre più dense e nere, anticipano pochi minuti fittissimi di gocce, poi, l’aria profumerà di terra e l’elettricità andrà altrove; tornerà il vento.
Un’estate schiva, che resta chiusa nei suoi cieli grigi ed improvvisi, ombrosi come il mio umore, una stagione avulsa dalla normalità, quasi quanto questa sensazione di fragilità che da qualche mese mi accompagna, la vita non smette la sua bellezza pur precisandone l’incostanza.
A quest’ora in molte famiglie si va consumando la liturgia domenicale, la moglie porta in tavola il dolce richiamando i bambini che giocano a rincorrersi e il padre ferma il martello, un gatto forse miagola, cercando una briciola di felicità, la televisione vende immagini narcotizzanti.
A volte ho come la sensazione di avere cineprese nelle pupille e di usare lenti ottiche distorte, allora la moglie serve in tavola il dolce pensando alle sue ossa stanche e a quello che sarà un domani uguale, il marito alla donna che ama, che gli brucia lontano, i bambini giocano a rincorrersi dimenticando tutte le correzioni ed io … ho come la voglia di sparire,
di riavvolgere la scena, di tornare bambina, di modellare le mie fiabe e … c’era una volta la possibilità che un uomo vestito d’azzurro con il suo amore sapesse addormentare il dolore, l’abuso che solo sa provare chi dal palco, dopo aver partecipato ad un teatro delle crudeltà, poi siede in prima fila ed assistere, un uomo che sappia spegnere tutte le parole, anche quelle belle usate senza verità.
Tutte la mitezza dell’imbrunire si indovina
lungo l’attaccatura dei tuoi capelli,
dove l’aura delle labbra delle sere prima
è intenta a sfiorarti la fronte .
Il tuo buon odore scioglie
i nodi del giorno, mi rimette all’innocenza dello zucchero filato
e alla postura morbida, ai prodigi
che l’amore sa attestare con la protezione.
L’opera di Emilia Barbato ci parla attraverso gli occhi di una madre che si offre “senza più geografie”, all’amore forte per una figlia.
E’ questa l’introduzione che ci accoglie, ci fa accomodare, una sorta di comunicazione, calda – amorevole, una voce guida.
Il libro è suddiviso in tre parti:
Frattali
Geografie
Paesaggi
La prima parte ha in se la voglia di lasciarsi l’oscuro dietro le spalle, qualcosa da smettere non solo come se fosse un abito, ma anche e soprattutto come pelle, una sorta di desiderio che attraversa e che alla fine dopo tutto il dolore ci sia il silenzio come una salvezza.
Mi ritorni.
Entri senza bussare,
come un’aria cupa in un vicolo stretto.
Sparpagli fogli, con mani di trasparenza e gelo.
Ti guardo nella fragilità della carta,
alla compostezza delle mie paure.
Mi assiepo alle tante altre,
quasi fossimo un prato di cadaveri,
senza scopi.
I
Mi entrano‐dal lato destro del finestrino- e
si muovono accoratamente, fino a sparirmi,
i monti che fanno la cornice cupa della notte,
stringono il crepuscolo livido precipitandolo su tutta la campagna.
La pioggia ha smesso di soccorre le pene dei prati,
confondendosi insieme agli ultimi sentori del giorno.
Dicono che il cielo abbia inviato certi suoi emissari sulla terra e che questi
si affatichino‐lungo tutte le corsie delle autostrade‐scrivendo un copioso tema sull’addio
II
La maniera antica delle prime locandine dei cinema fuori moda
si copre, pudicamente, con gli ultimi brandelli delle parole succedutesi nel tempo.
Il vento ha lacerato e seminato, fra gli echi molesti della città, quelle più recenti, mentre l’acqua
ha denudato le originarie insegne alla vista del più crudele abbandono.
III
Con un lungo commiato
ci saluterà perfino
il suono della parola ‐ oblio ‐
indugiando,
ancora per qualche secondo,
nell’ultima vocale,
sembra voler recuperare il ricordo
e le note di un amore che non c’è.
IV
Arrivò il momento, eppure,
fu troppo tardi per richiamare il dolore,
voltatosi di spalle barcollante, come un’ombra
senza più la sua figura.
V
Infine.
Reciterò certi stupori impareggiabili
che rischiarano tra le pagine di quei libricini di poesia,
dimenticando, senza sentimenti, quell’assurdo scritto,
per molti versi simile ad una preghiera,
in cui io, in cui tu,
avremmo potuto continuare
ad esistere,
dignitosamente.
L’eco dei grilli risuona nel chiarore
purpureo dei vespri di luglio
provocando un’imperfezione
ai simulacri del giorno,
come un pregio raro,
la crepa avanza -lentissima-
sul viso eterno
della cariatide lesa.