*

la superficie fusa dell’elitre 
è un insieme bruno meraviglioso,
la fermezza di un fremito muto 
dico passandomi la mano
lì dove memoria e simmetria di spalle
hanno visto sporgersi e tremare 
le scapole sotto le tue dita, sono stata
un’erba irta sempre prossima 
alla fuga, la follia del fuoco,
la paura di un animale che fiuta il sanguee con l’andatura e le frustate delle fiamme oggi sono un tubercolo appuntito

*

prese a leggere un libro, poi i capitoli diventarono ore
e le ore giorni, quindi prese a scorrere le cronache
preannunciate della rimozione – si sa, il bianco
ha dottrina e fondamenta solide-
certe questioni terrene si risolvono con straordinarie efferatezze,
così si piegò sulle ginocchia, estirpò il calice del vilucchio,
lo spezzò tra le dita, mangiò la parola “femmina”
e disse: “perché trattare le cose sempre secondo un ordine precostituito?”

*

accettare quietamente la totale 
noncuranza dell’albero da frutto
che si allunga oltre la siepe
è un atto di disobbedienza, il vicinato
si riunisce nel salotto per discutere
se potare i rami o cucinare i frutti
ceduti dalla legge di gravità alla terra,
e mentre si decide della torta, chi
la vorrebbe cotta chi condita con una crema,
le mele continuano a cadere e l’albero
a stirare i rami in un gesto che neutralizza
l’intelligenza mentre la volontà si piega.

*

il raggio dell’alba, come nell’antica 
leggenda il filo rosso, lega le sorti celesti
alle rovine umane, gli occhi umidi
dei bambini condensano spostandosi 
da uno spavento all’altro. 
Dal corpo del padre a una conchiglia 
la polvere dei fantasmi, l’estetica 
del vuoto, la spoglia mortale di una stella.

ancora su Chlebnikov 

cerco nelle braci della sigaretta
una poesia di Chlebnikov, aspettando
di leggere ancora mi sottraggo
all’imbarazzo e scrivo un gusto amaro,
con l’indice nel nerofumo so
di saper tracciare il residuo
di una combustione
e un cipiglio retrattile perché,
semmai leggessi ancora una poesia
di Chlebnikov, penserei di usare
la saggezza di un pescatore
che impara dal mare il suo mare

*

se tu mi amassi come in una poesia
di Chlebnikov facendo uno scalpore
d’occhi e un nucleo solido nel corpo,
se scrivessi per me 
la calma delle foglie e la folla
di una lisca lacustre tenendomi in orbita, 
senza alcuna dimostrazione verrei a te,
camminando leggera come una formica
*
cerco nelle braci della sigaretta
una poesia di Chlebnikov, aspettando
di leggere ancora mi sottraggo
all’imbarazzo e scrivo un gusto amaro,
con l’indice nel nerofumo so
di saper tracciare il residuo
di una combustione
e un cipiglio retrattile perché,
semmai leggessi ancora una poesia
di Chlebnikov, penserei di usare
la saggezza di un pescatore
che impara il mare dal suo mare

*

come una luce chiara dalla finestra
la poesia dei suoni mi arriva
in un mormorio di versi
-per ciascuna donna una voce-
che sia un frinire o un crepitio
di petali l’io si nasconde,
come mi modula dunque
questo corpo?
Ho forse il canto di una duna
nel calpestio dei piedi o i gemiti
e la solitudine della conchiglia?
Canto anche io come un granello?

*

un chiarimento scava il senso 
della parola come un verme nella mela, 
un’onda di contrazione dalla testa alla coda,
chiedere alla mela perché cristallizza 
i suoi zuccheri
non ti aiuterà a sprofondare nel piacere,  
naturalmente la parola mela 
offre una polpa e un succo

#Capogatto di Emilia Barbato (di C. Tosetti)

Che splendida recensione Carlo. Sono commossa, grazie di cuore, trovo sia una delle tue gemme fitte di luce e grazie alla redazione tutta per aver dato ancora spazio alla mia voce. Felice.

Poetarum Silva

Con Capogatto (puntoacapo Editrice, 2016; prefazione di Elio Grasso) Emilia Barbato è alla sua terza fatica, dopo Geografie di un Orlo (CSA Editrice, 2011) e Memoriali Bianchi (Edizioni Smasher, 2014). È inoltre presente in diverse antologie (Fusibilialibri, Ursini, Aletti, Fondazione Mario Luzi Editore).
La silloge in esame si apre con una poesia (Quel modo di essere luoghi, pag. 11), che cita il romanzo di Christina Stead (L’uomo che amava i bambini, Adelphi, 2004, o – nella prima edizione italiana – Sabba familiare, Garzanti, 1978). La composizione è un sussurrato sprone ad imitare la capacità del luogo di resistere, accogliere, di fare da sostrato passivo e cautamente compassionevole allo svolgersi di eventi, sia umani che legati al divenire delle cose, inevitabili; il romanzo citato ne evocherebbe anche di dolorosi, violenti, ma i versi di Emilia Barbato sono quanto di più lontano possa esistere dalla…

View original post 1.543 altre parole