Recensione di Anna Maria Curci al rigo tra i rami del sambuco, Pietre Vive editore 2018

Il rigo tra i rami del sambuco di Emilia Barbato sa e rende lo scoccare in contemporanea della bellezza e della morte. I testi poetici intercettano e annodano i fili di coincidenze che pulsano e incidono, rivelano e tracciano i solchi del dolore.

Colgo con un senso di riconoscenza la capacità di afferrare, esprimendone nei versi perfino passaggi quasi impercettibili di tono cromatico, striature e rifrazioni di affetti, sentimenti, patimenti. Questi passaggi, sapienti della sapienza di chi ha saggiato il tremendo, sono accompagnati dal quesito ossimorico: quale è il peso della Levità, quali rovinose cadute dei gravi comporta l’abilità di riconoscerla, nel fuoco e nella piaga che corrode, la sublime Leggerezza?

Di ossimoro fecondo testimoniano non solo i binomi centrali, come “castigo” e “attesa”, ma anche l’irrompere – numero primo e calor bianco del contrasto – della “quinta” stagione.

Non va taciuta, accanto all’impresa di rendere – un dolore che scava, spezza e non scivola, tuttavia, nel patetico – il fragile, il provvisorio, l’intuizione dei sensi e oltre i sensi («Come un piccolo mondo antico/ le nostre vite si fissano ai sugheri/ immersi nelle acque lacustri»), il vigore espressivo di rime e allitterazioni, talvolta proprio nello stesso componimento: «ciascuno quieto occupa il filo/ di lenza parallela fino alla stratta/ del campanello, poi di fretta/ verso la stanza e il destino/ che aspetta».

Anna Maria Curci, 5 settembre 2019